“Ciò che importa ci dimostra che quanto siamo soliti
definire opera d’arte non è il risultato di un’attività misteriosa bensì un
oggetto fatto dall’uomo per l’uomo […]Ricordiamo ancora che ogni tratto è il
risultato di una decisone dell’artista; che egli dovette meditarlo e
trasformarlo più volte; e forse si domandò se doveva lasciar così quell’albero
nello sfondo oppure ridipingerlo, che forse si compiacque di una felice
pennellata, capace di dare uno splendore improvviso e inatteso a una nube
incendiata dal sole, e che solo controvoglia vi aggiunse le figure per le
insistenze dell’acquirente. Infatti, la maggior parte dei quadri che ora sono
allineati sulle pareti dei musei e delle statue che si trovano nelle gallerie
non era affatto destinata a essere esposta come opera d’arte: fu creata per una
circostanza ben determinata e con un fine preciso che l’artista aveva in mente
al momento di mettersi all’opera”. (La storia dell’arte di E. H.
Gombrich).
Maurits
Cornelis Escher (1898 – 1972) fu un incisore e grafico olandese conosciuto
principalmente per le sue litografie ed incisioni che rimandano a motivi
geometrici che cambiano continuamente movimento nel quadro stesso. Proprio per
questo motivo i suoi quadri sono amati dagli scienziati, dai logici e dai
fisici. La prospettiva e la percezione della prospettiva spesso incanalate in
evoluzioni tridimensionali raffigurano oggetti impossibili. Non bisogna
lasciarsi ingannare dalle figure utilizzate da Escher nei suoi dipinti e pensare
che l’autore strizzi l’occhiolino solo a quei mondi delle scienze spesso molto
lontani e in antitesi con il mondo dell’arte (basti pensare al Circolo di
Vienna che bandiva qualsiasi forma d’arte e di pensiero che non si rifacesse
alla teoria logica di falsificazione e verificazione: una proposizione è reale
solo se è possibile affermare che sia vera o falsa). Il pittore grazie all’uso
di figure geometriche riesce a mettere in relazione sia l’aspetto puramente matematico che si rifà
alla teoria che il mondo, la natura e la realtà siano costitute da numeri ed
operazione numeriche, sia l’aspetto puramente artistico e quindi metafisico
dell’infinito.
Il
quadro “Vincolo d’unione” è costituito da due spirali che confluiscono l’una
nell’altra rappresentando, a sinistra, la testa di una donna e a destra quella
di un uomo. Questi, come un nastro senza fine, con le fronti congiunte, formano
una doppia unità riuscendo a sconfiggere il paradigmatica prima religioso, poi
artistico di come si sia passati dall’Uno al due. L’effetto tridimensionale viene
intensificato in questo caso da alcune sfere che fluttuano davanti, dietro e
all’interno dei visi vuoti come se l’uomo fosse al centro dell’universo
riprendendo il pensiero filosofico di Protagora: “L’uomo è misura di tutte le
cose”.
Il
quadro viene ad essere molto rappresentativo e di facile lettura quando si
pensa a come possa essere nata un’idea nella mente umana e di come tale idea
possa essere comunicato all’Altro, portando così all’ormai sempre più raro
dialogo interpersonale. La filosofia e l’arte che dal ‘900 in poi sono
diventate l’una parte dell’altra, da quando cioè l’artista lasciò la vocazione
riproduttiva della realtà per dedicarsi alla produzione di un significato,
dovendosi quindi chiedere filosoficamente “quando un’opera è arte” (basti pensare
ai ready-made di Duchamp o alle odierne installazioni di arte contemporanea),
hanno cercato di far dialogare fruitore e quadro: il soggetto, il fruitore
guarda l’oggetto opera arte che a sua volta diventa soggetto che guarda il
fruitore, creando un rapporto empatico sottaciuto nella grande arte
tradizionale e quasi esasperato dalle avanguardie in poi (“la montagna di
Sainte Victoire mi guarda”, scrisse Cézanne mentre dipingeva le diverse
rappresentazioni del monte).
A
partire dagli anni ’90 le Neuroscienze cercarono di indagare gli impulsi
estetici, cioè sia come l’artista arriva a creare un’opera d’arte, sia come il
fruitore viene catturato dall’immagine o come la grammatica universale del
linguaggio. Già nel ‘900 Wittgenstein nelle Ricerche filosofiche portò alla
luce il concetto che tra comprendere un’immagine riferita a un’opera d’arte e
comprendere un paesaggio della natura ci sia un piccolo scarto: nel primo caso
l’immagine dice se stessa, le sue forme e i suoi colori, ma a differenza del
secondo quadro rimanda ad altro. E proprio nell’altro le Neuroscienze hanno
cercato di capire come la mente si muova e si articoli tramite il concetto di neuroni specchio capaci di comprendere
codificare/decodificare immagini e linguaggio attraverso un processo di imitazione
e simulazione del comportamento altrui, utili a trovare una base neurobiologica
dell’empatia. I neuroni specchio sono un particolare tipo di neuroni scoperti
originariamente nella corteccia motoria di scimmia che si attivano sia quando
una scimmia compie un atto motorio, sia quando osserva un atto motorio. Oggi si
parla di meccanismo a specchio, un meccanismo che ha la capacità di trasformare
azioni provenienti dal mondo esterno, emozionali o non, in atti motori
dell’individuo. I neuroni specchio danno una comprensione unitaria della
percezione dell’azione, un meccanismo che unifica quello che fanno gli altri
con le nostre capacità: quindi invece di avere due mondi separati, un cervello
che capisce e un cervello che sa fare, questi si unificano e danno una visione
unitaria dell’azione. Quello che mettono in luce i neuroni specchio è qualcosa
di diverso dalla conoscenza puramente scientifica perché è una conoscenza
esperienziale: quello che fa una persona fa risuonare qualcosa che so fare io,
mettendomi in empatia non solo con i miei simili ma anche con l’arte (basti
pensare alla sindrome di Stendhal).
Kant regalava l’empatia, l’arte, la religione e i
processi estetici in un’unica espressione: il noumeno, contrapponendo tale termine al fenomeno come qualcosa di governabile attraverso leggi
scientifiche. L’empatia oggi non è più qualcosa di cui non si conosce la natura
e quindi come qualcosa di non conoscibile attraverso leggi fisiche, ma si è
imposta come un fatto scientifico incontrovertibile. La percezione di un
fenomeno è fondamentale per lo sviluppo della coscienza, perché esso, il
fenomeno, coinvolge anche il campo dell' empatia, dunque del nostro modo di
partecipare all’ esperienza estetica e patetica di un altro soggetto e anche
all’esperienza che ci proviene da un’opera d’arte, per cui la stessa esperienza
viene ad essere proiettata sul fruitore stesso; non solo, ma con una
partecipazione affettiva oltre a quella cognitiva. Per cui da questa nostra
partecipazione non può non derivare una “connivenza” con il prossimo come con
l’opera d’arte. Quindi nella percezione un senso etico accompagna quello
estetico come già nella Nascita della tragedia Nietzsche affermava quando
diceva che i greci avevano creato l’Olimpo per sopportare la tragicità della vita
e che nonostante tutto l’uomo doveva sempre dire sì alla vita.
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