lunedì 27 gennaio 2014

Vincolo d'unione



“Ciò che importa ci dimostra che quanto siamo soliti definire opera d’arte non è il risultato di un’attività misteriosa bensì un oggetto fatto dall’uomo per l’uomo […]Ricordiamo ancora che ogni tratto è il risultato di una decisone dell’artista; che egli dovette meditarlo e trasformarlo più volte; e forse si domandò se doveva lasciar così quell’albero nello sfondo oppure ridipingerlo, che forse si compiacque di una felice pennellata, capace di dare uno splendore improvviso e inatteso a una nube incendiata dal sole, e che solo controvoglia vi aggiunse le figure per le insistenze dell’acquirente. Infatti, la maggior parte dei quadri che ora sono allineati sulle pareti dei musei e delle statue che si trovano nelle gallerie non era affatto destinata a essere esposta come opera d’arte: fu creata per una circostanza ben determinata e con un fine preciso che l’artista aveva in mente al momento di mettersi all’opera”. (La storia dell’arte di E. H. Gombrich).
Maurits Cornelis Escher (1898 – 1972) fu un incisore e grafico olandese conosciuto principalmente per le sue litografie ed incisioni che rimandano a motivi geometrici che cambiano continuamente movimento nel quadro stesso. Proprio per questo motivo i suoi quadri sono amati dagli scienziati, dai logici e dai fisici. La prospettiva e la percezione della prospettiva spesso incanalate in evoluzioni tridimensionali raffigurano oggetti impossibili. Non bisogna lasciarsi ingannare dalle figure utilizzate da Escher nei suoi dipinti e pensare che l’autore strizzi l’occhiolino solo a quei mondi delle scienze spesso molto lontani e in antitesi con il mondo dell’arte (basti pensare al Circolo di Vienna che bandiva qualsiasi forma d’arte e di pensiero che non si rifacesse alla teoria logica di falsificazione e verificazione: una proposizione è reale solo se è possibile affermare che sia vera o falsa). Il pittore grazie all’uso di figure geometriche riesce a mettere in relazione sia  l’aspetto puramente matematico che si rifà alla teoria che il mondo, la natura e la realtà siano costitute da numeri ed operazione numeriche, sia l’aspetto puramente artistico e quindi metafisico dell’infinito.
Il quadro “Vincolo d’unione” è costituito da due spirali che confluiscono l’una nell’altra rappresentando, a sinistra, la testa di una donna e a destra quella di un uomo. Questi, come un nastro senza fine, con le fronti congiunte, formano una doppia unità riuscendo a sconfiggere il paradigmatica prima religioso, poi artistico di come si sia passati dall’Uno al due. L’effetto tridimensionale viene intensificato in questo caso da alcune sfere che fluttuano davanti, dietro e all’interno dei visi vuoti come se l’uomo fosse al centro dell’universo riprendendo il pensiero filosofico di Protagora: “L’uomo è misura di tutte le cose”.
Il quadro viene ad essere molto rappresentativo e di facile lettura quando si pensa a come possa essere nata un’idea nella mente umana e di come tale idea possa essere comunicato all’Altro, portando così all’ormai sempre più raro dialogo interpersonale. La filosofia e l’arte che dal ‘900 in poi sono diventate l’una parte dell’altra, da quando cioè l’artista lasciò la vocazione riproduttiva della realtà per dedicarsi alla produzione di un significato, dovendosi quindi chiedere filosoficamente “quando un’opera è arte” (basti pensare ai ready-made di Duchamp o alle odierne installazioni di arte contemporanea), hanno cercato di far dialogare fruitore e quadro: il soggetto, il fruitore guarda l’oggetto opera arte che a sua volta diventa soggetto che guarda il fruitore, creando un rapporto empatico sottaciuto nella grande arte tradizionale e quasi esasperato dalle avanguardie in poi (“la montagna di Sainte Victoire mi guarda”, scrisse Cézanne mentre dipingeva le diverse rappresentazioni del monte).
A partire dagli anni ’90 le Neuroscienze cercarono di indagare gli impulsi estetici, cioè sia come l’artista arriva a creare un’opera d’arte, sia come il fruitore viene catturato dall’immagine o come la grammatica universale del linguaggio. Già nel ‘900 Wittgenstein nelle Ricerche filosofiche portò alla luce il concetto che tra comprendere un’immagine riferita a un’opera d’arte e comprendere un paesaggio della natura ci sia un piccolo scarto: nel primo caso l’immagine dice se stessa, le sue forme e i suoi colori, ma a differenza del secondo quadro rimanda ad altro. E proprio nell’altro le Neuroscienze hanno cercato di capire come la mente si muova e si articoli tramite il concetto di neuroni specchio capaci di comprendere codificare/decodificare immagini e linguaggio attraverso un processo di imitazione e simulazione del comportamento altrui, utili a trovare una base neurobiologica dell’empatia. I neuroni specchio sono un particolare tipo di neuroni scoperti originariamente nella corteccia motoria di scimmia che si attivano sia quando una scimmia compie un atto motorio, sia quando osserva un atto motorio. Oggi si parla di meccanismo a specchio, un meccanismo che ha la capacità di trasformare azioni provenienti dal mondo esterno, emozionali o non, in atti motori dell’individuo. I neuroni specchio danno una comprensione unitaria della percezione dell’azione, un meccanismo che unifica quello che fanno gli altri con le nostre capacità: quindi invece di avere due mondi separati, un cervello che capisce e un cervello che sa fare, questi si unificano e danno una visione unitaria dell’azione. Quello che mettono in luce i neuroni specchio è qualcosa di diverso dalla conoscenza puramente scientifica perché è una conoscenza esperienziale: quello che fa una persona fa risuonare qualcosa che so fare io, mettendomi in empatia non solo con i miei simili ma anche con l’arte (basti pensare alla sindrome di Stendhal).
Kant regalava l’empatia, l’arte, la religione e i processi estetici in un’unica espressione: il noumeno, contrapponendo tale termine al fenomeno come qualcosa di governabile attraverso leggi scientifiche. L’empatia oggi non è più qualcosa di cui non si conosce la natura e quindi come qualcosa di non conoscibile attraverso leggi fisiche, ma si è imposta come un fatto scientifico incontrovertibile. La percezione di un fenomeno è fondamentale per lo sviluppo della coscienza, perché esso, il fenomeno, coinvolge anche il campo dell' empatia, dunque del nostro modo di partecipare all’ esperienza estetica e patetica di un altro soggetto e anche all’esperienza che ci proviene da un’opera d’arte, per cui la stessa esperienza viene ad essere proiettata sul fruitore stesso; non solo, ma con una partecipazione affettiva oltre a quella cognitiva. Per cui da questa nostra partecipazione non può non derivare una “connivenza” con il prossimo come con l’opera d’arte. Quindi nella percezione un senso etico accompagna quello estetico come già nella Nascita della tragedia Nietzsche affermava quando diceva che i greci avevano creato l’Olimpo per sopportare la tragicità della vita e che nonostante tutto l’uomo doveva sempre dire sì alla vita.

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